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In considerazione dell’ interesse suscitato dall’ articolo relativo al lastrico solare ritengo opportuno trattare di un altro argomento ad esso strettamente connesso quale il diritto disopraelevazione spettante al proprietario dell’ultimo piano di un edificio o del lastrico solare.

Secondo l’art.1127c.c.c, infatti,  il proprietario dell’ultimo piano di un edificio o il proprietario esclusivo del lastrico solare possono elevare nuovi piani, erigendo nuove costruzioni che saranno completamente di loro proprietà.

Tuttavia, perchè questo possa avvenire  è necessario che:

1)  chi opera la sopraelevazione corrisponda ai condomini del resto dello stabile un’indennità pari al valore di mercato dell’area da occuparsi con la nuova opera, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l’importo della quota a lui spettante

2)  la costruzione non deve alterare l’aspetto architettonico dell’edificio nè ridurre l’aria e la luce dei piani sottostanti

3)  la costruzione, comunque, non deve minare l’integrità strutturale dello stabile nè essere in violazione delle norme antisismiche in vigore nel territorio dove sorge lo stabile

Se il costruttore non rispetta il primo punto,  il condominio potrà autorizzare l’amministratore ad agire in giudizio per ottenere il corrispettivo previsto.

Se invece non vengono soddisfatte la seconda e la terza condizione,  la Cassazione ( Sent. n. 13611/2000) ha stabilito che l’amministratore è legittimato, senza neppure la necessità di ottenere l’autorizzazione dall’assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio per la demolizione della sopraelevazione dell’ultimo piano dell’edificio, perchè tale atto, diretto a conservare l’ esistenza delle parti comuni condominiali, rientra negli atti conservativi dei diritti che, ai sensi dell’art.1130 cc, è attribuito all’amministratore.

Evidentemente la situazione prevista, ed il relativo vantaggio che ne consegue, fa da contraltare alla posizione di sicuro svantaggio in cui invece viene a trovarsi proprietario del lastrico solare  per quanto concerne le riparazioni dovute, ad esempio, alle infiltrazioni d’acqua di cui ci siamo occupati nell’articolo precedente.

Nonostante la fitta disciplina, che le varie leggi e la ricca giurisprudenza sul punto dettano riguardo alla disciplina del condominio degli edifici, sono tutt’altro che infrequenti,  negli edifici antichi, i casi in cui queste regole non trovano nemmeno la seppur minima applicazione: non è stata mai convocata l’assemblea dei condomini, non  è mai stato nominato un amministratore, non si è mai proceduto al conteggio dei millesimi, ecc.

 I non addettti ai lavori descriverebbero queste situazioni con l’espressione << si deve ancora fare il condominio >>. 

Appare opportuno fare chiarezza sul punto. Il condominio non è un qualcosa che va fatto in aggiunta all’edificio come se fosse una pertinenza di quest’ultimo, al pari magari di un nuovo portone o di una pianta ornamentale, tutt’altro!  Il condominio esiste già per il solo fatto che esiste l’immobile con più abitazioni! Per questo solo fatto,  per l’esistenza dell’immobile troveranno quindi applicazione tutte le norme che disciplinano il condominio degli edifici.  In particolare tra queste deve essere subito segnalata la disposizione di cui all’art. 66 delle Disposizioni di attuazione e  transitorie del Codice civile. In base a tale norma per ogni condominio esiste l’obbligo di convocazione dell’assemblea con una cadenza almeno annuale. Per il funzionamento dell’ assemblea, ex art. 1136 c.c., è indispensabile stabilire di quale frazione del valore dell’edificio è proprietario ciascun condomino che intervenga nella stessa assemblea. L’art.68 delle Disposizioni di attuazione e  transitorie del Codice civile stabilisce che il regolamento di condominio debba identificare tali quote e che tali quote siano espresse in millesimi. Se tuttavia non esistesse alcun regolamento di condominio e non esistesse accordo tra i condomini sul punto, la Cassazione  ( Sent. n.6202/98 ) ha stabilito che le delibere assembleari prese in assenza delle tabelle millesimali sarebbero comunque valide, mentre, in caso di contestazione di tali delibere per la mancata determinazione delle suddette tabelle, sarà il giudice a stabilire l’eventuale mancato rispetto  delle proporzioni indicate nell’art.1136 c.c. nell’assemblea.

Ora, il mancato rispetto dell’art. 66 delle Disposizioni di attuazione e  transitorie del Codice civile, e quindi la più totale inerzia di un condominio che non provveda neppure alla convocazione dell’assemblea di per sè non può comportare nessuna sanzione proveniente da soggetti esterni al condominio stesso: non potrà esservi nessun giudice che, d’ufficio o su segnalazione di un estraneo, intervenga sul punto in alcun modo. Quanto appena detto, tuttavia, non vale per ciascun condomino che ha sempre la possibilità di ottenere, anche giudizialmente, che il condominio funzioni regolarmente anche dove ciò non fosse mai avvenuto in precedenza. Il Codice Civile, all’art.  1139, prevede infatti che, laddove non esistano norme più specifiche, al condominio vadano applicate quelle che regolano in generale la comunione e, tra queste, l’art. 1105 c.c. Questa norma prevede che, in caso di inerzia nell’amministrazione della cosa comune, ciascun comproprietario possa ottenere i provvedimenti necessari, tra cui, addirittura, la nomina dell’amministratore, in via giudiziale. 

Alla luce di tali considerazioni, quindi, ciascun condomino potrà ben cominciare una causa per ottenere la regolare convocazione dell’assemblea e l’applicazione del resto delle norme che regolano il funzionamento dell’amministarzione del condominio.

E’ nata a Napoli l’Associazione Avvocati per la Conciliazione Stragiudiziale.

I professionisti aderenti, tutti conciliatori professionisti , intendono divulgare la procedura conciliativa come metodo di risoluzione rapido delle controversie intervenendo con spirito collaborativo e soprattutto deflattivo nel sistema giustizia.    

Diversi sono gli ambiti per i quali il tentativo di conciliazione è divenuto obbligatorio e precisamente nelle liti tra imprese e consumatori, (L. 580/1993) in tema di fornitura di servizi di energia elettrica e gas (L. 481/1995), di diritti dei consumatori (L. 281/1998), di turismo L.135/2001) , telecomunicazioni (del.Agcom n. 173/07 cons), societaria (D.lgs. 5/2003), franchising (L.129/2004), codice del consumo (d.lgs. 206/2005), patto di famiglia (L.55/2006).

Attivare una procedura di conciliazione è estremamente semplice ed allo stato è esperibile  presso le camere di conciliazione istituite  nelle Camere di Commercio ovvero presso gli organismi di Conciliazione riconosciuti dal Ministero di Grazia e Giustizia. Si auspica che le Camere di Conciliazione vengano istituite presso i Tribunali  e le Corti di Appello in modo che il luogo deputato per eccellenza all’esercizio del potere giurisdizionale apra le porte all’esercizio di una giustizia più immediata, più efficiente e più vicina ai cittadini.

Le caratteristiche della Conciliazione  sono difatti la rapidità, la riservatezza, l’efficacia e soprattutto l’economicità.

Cosa chiedere di più….allora conciliamo?

 La Costituzione italiana con l’art. 33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne  l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti egli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura università ed accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.) si occupa dell’arte come attività libera dell’uomo e come fatto di creazione umana. Il fondamento della garanzia costituzionale è diverso nelle due direzioni: nella prima prevale l’interesse individuale, nella seconda quello della collettività.

            L’affermazione che l’arte e la scienza sono libere significa, con riferimento alla cultura, che nel sistema costituzionale italiano non sono ammesse, e quindi non sarebbero con esso compatibili, una cultura ed un’arte di Stato o di regime, cioè una cultura ufficiale imposta autoritariamente nemmeno sotto forma di “ direttive” ed “orientamenti” culturali ed artistici.

 

            Secondo il nostro diritto positivo l’insegnamento è necessariamente ed esclusivamente attività personale che non appartiene e compete né alla persona giuridica, al cui servizio eventualmente l’insegnante si trovi, né alla scuola nella cui organizzazione l’insegnamento risulti inquadrato.

            Il suo riconoscimento come oggetto di una particolare libertà, (la libertà di manifestazione del pensiero) allorché essa avviene nell’ambito e con le finalità proprie della scuola, consente di precisare che il rapporto di servizio che lega l’insegnante all’organizzazione scolastica non  incide  sull’insegnamento in quanto tale. Esso vincola soltanto l’insegnante a svolgere il proprio compito nell’ambito di certe strutture organizzative in cui risulta articolata la scuola, ma non trasforma l’insegnamento della persona nell’insegnamento dell’ente.

 

            La libertà di insegnamento, cui si riferisce l’art. 33 della Costituzione, attiene esclusivamente all’insegnamento scolastico, vale a dire a quella forma tipica di insegnamento che, per il particolare modo in cui si esprime, appare preordinata in via strutturale alla realizzazione di uno scopo di istruzione e di educazione.

            La specificazione compiuta, se da un lato restringe la serie di manifestazioni del pensiero che rientrano nell’ambito della libertà di insegnamento, dall’altro include gli aspetti organizzativi ad essa strumentali: in questo modo il suo oggetto risulta costituito sia dall’insegnamento scolastico che dalla istituzione ed organizzazione delle scuole.

 

            LIBERTA’ NELLA SCUOLA E LIBERTA’ DELLA SCUOLA

            Il principio della libertà di insegnamento va dunque interpretato nella duplice forma di libertà garantita al singolo docente a titolo individuale (libertà nella scuola) e di libertà garantita altresì alla scuola privata come organismo a sé stante (libertà della scuola).

 

            Tale breve premessa attinente alle garanzie costituzionali riconosciute dallo stato italiano all’insegnamento ed alla istituzione scolastica era necessaria per comprendere l’evoluzione legislativa dell’ insegnamento della danza  e della organizzazione delle scuole di danza nel nostro paese.

 

           

 

 

 

            IL QUADRO NORMATIVO RELATIVO ALL’INSEGNAMENTO DELLA DANZA

            La prima legge riguardante l’insegnamento della danza in Italia fu la L.165 del 22.02.1940 con la quale veniva istituita la scuola di danza presso la Regia Accademia d’Arte Drammatica in Roma.

            La durata del corso di formazione per danzatori era di otto anni, allo scadere dei quali chi aveva conseguito il diploma poteva iscriversi al corso di perfezionamento della durata di tre anni per maestro di danza e per compositore di danza .

            Il Ministro per l’Educazione Nazionale aveva il compito di modificare eventualmente le materie di insegnamento stabilite e di approvare gli orari, i programmi di ammissione e di esame delle scuole di danza e del relativo corso di perfezionamento nonché le norme per il loro funzionamento. Era previsto anche il pareggiamento di quelle scuole di danza private conformi sostanzialmente per l’insegnamento delle varie discipline, per la durata dei corsi e per l’ordinamento interno a quanto prescritto per la scuola di danza governativa.

 

            Con il decreto legislativo n. 1236 del 07.05.48 tale scuola di danza veniva riordinata assumendo la denominazione di Accademia Nazionale di Danza. Ad essa veniva conferita autonomia sia sul piano didattico che amministrativo. La direttrice, assunta in seguito a pubblico concorso per titoli, era responsabile dell’andamento didattico e disciplinare dell’Accademia stabilendo lo svolgimento dei programmi di insegnamento e l‘orario e provvedendo alla designazione dei professori incaricati secondo le disposizioni vigenti. Restava in vita l’istituto del pareggiamento che doveva essere concesso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro per la Pubblica Istruzione, in modo che i diplomi e gli attestati rilasciali dalle scuole di danza pareggiate potessero essere stati validi a tutti gli effetti come i corrispondenti titoli dell’Accademia.

 

            La legge n. 28 del 04.01.1951, che ratificava con modificazioni il D.Lgs 1236/48, poneva l’accento sul titolo di maestro di danza spettante a quanti avessero conseguito presso l’Accademia Nazionale di Danza o altro istituto pareggiato il diploma del corso di perfezionamento e la successiva L. 297 del 18.03.1958 prevedeva il rilascio del diploma di abilitazione all’esercizio professionale di maestro di danza per coloro ai quali fosse stata riconosciuta da un’apposita commissione l’idoneità in base ai titoli presentati ovvero, se ritenuto necessario, in seguito ad esame.

 

            Come a tutti noto l’istituto del pareggiamento non è mai stato attuato e nonostante l’esistenza del titoli di abilitazione all’esercizio professionale di maestro di danza, non è  mai stato approfondito ed affrontato concretamente il fenomeno della esistenza delle scuole di danza private.

 

            IL FATTO E LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE

            Forse non tutti sanno che Sillani Ada, una maestra di danza, che aveva esercitato la professione senza possedere il diploma previsto dall’art. 3 della L.28/1951, subì un processo penale nel quale per la prima volta venne sollevata la questione di legittimità costituzionale del precitato articolo 3 L.28/51 con l’art. 33 della Costituzione ( “Nessuno può assumere il titolo di maestro di danza ed esercitare la relativa professione se non abbia conseguito nell’Accademia nazionale di danza o in un istituto pareggiato il diploma del corso di perfezionamento” art. 3 L.28/51.).

            La questione fu decisa con la sentenza n. 114 del 08.07.57 che ritenne legittima la norma sotto il profilo costituzionale e pertanto Sillani Ada subì il processo penale con conseguente condanna a varie pene pecuniarie.

            Tale decisione però, già a suo tempo, suscitò delle perplessità.

            Un illustre coreografo straniero, un vecchio e reputato attore a riposo, un pittore di grido, non avrebbero potuto più insegnare perché sprovvisti  del relativo diploma?

 

            E difatti il divieto dell’insegnamento della danza classica a coloro che fossero sprovvisti del relativo diploma poteva ritenersi compatibile con il terzo comma dell’art. 33 Cost. (libertà della scuola), in quanto teso a realizzare una misura a tutela dell’interesse generale attraverso l’accertamento dei dovuti titoli nel docente o nei docenti, ma sicuramente non con quello espresso nel primo comma. (libertà di insegnamento).

 

            La decisione della Corte Costituzionale, in un certo qual senso, era come se avesse ritenuto legittimo il “divieto” di insegnare.

            Fu necessario aspettare circa venti anni per far valere il doppio principio di libertà contenuto nell’art. 33 della Costituzione.

 

            IL RIPENSAMENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE         

            Con la sentenza n. 240 del 23.07.1974 infatti la Corte Costituzionale capovolgeva la precedente decisione dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma sancita dall’art. 3 L.28/1951.

 

            La Corte, riesaminando più compiutamente i concetti di libertà di insegnamento e di libertà della scuola, precisava che libertà di insegnamento non fosse soltanto libertà per chiunque di insegnare ma anche libertà di dedicarsi all’insegnamento in modo professionale, ossia di esercitare la “professione” di insegnante.

 

            Già in altra circostanza, in materia di disciplina professionale del giornalismo la Corte Costituzionale aveva ammesso la liceità di una disciplina differenziata tra chi svolgesse un’attività in modo anche frequente, ma pur sempre occasionale, e chi la svolgesse in modo professionale.      Difatti l’obbligo di iscrizione all’albo non è incompatibile con la libertà di stampa, pur rappresentando indubbiamente un limite al diritto di tutti di esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero.

 

            In questi termini altro era il caso che un regista,  un coreografo, un musicista avesse il diritto di farsi una sua scuola, anche se sprovvisto di un titolo avente valore legale che attestasse le sue capacità, altro il caso di chi facesse dell’insegnamento di un’ arte o di una scienza la sua professione e quindi si presentasse non tanto come regista, coreografo o musicista, quanto come maestro di regia, di coreografia o di musica.

            Invero la norma impugnata colpiva chi apriva delle scuole di danza attribuendosi il titolo di maestro di danza e l’esercizio della relativa professione, non chi si dedicasse all’insegnamento della danza.

 

            Il problema avvertito dalla Corte fu dunque quello di chiarire il concetto di libertà professionale per comprendere se la disciplina di questa libertà, quando la professione scelta sia l’insegnamento, consenta di introdurvi limitazioni che invece non sarebbero tollerabili per l’insegnamento di tipo non professionale.

 

            La Corte in definitiva, con la sentenza 240/74, precisava che la previsione di qualsiasi disciplina doveva essere in armonia con i principi della libertà della scuola e della libertà di insegnamento, con l’esclusione di ogni monopolio nell’organizzazione  e nella gestione delle scuole di danza e nel rilascio dei diplomi. Aveva pesato verosimilmente nella decisione dell’epoca anche il fatto che nessuna altra scuola di danza fosse stata mai pareggiata all’Accademia secondo un procedimento che, seppur rudimentale, era previsto dalla legge.

 

           

            QUESITI        

            Questo cosa voleva significare: che lo Stato avrebbe dovuto prevenire e reprimere il possibile inganno degli studi compiuti privatamente, o avrebbe consentito di vietare anche l’istituzione di scuole i cui docenti fossero sprovvisti dei requisiti minimi ritenuti necessari per l’insegnamento?

            E di conseguenza il potere dello Stato di fissare i requisiti minimi di capacità dei docenti si sarebbe potuto esercitare solo per le scuole paritarie o poteva estendersi a tutte le scuole private?

 

            Insomma la sentenza 240/74 della Corte Costituzionale lasciava un vuoto legislativo, vanificando le precedenti disposizioni in merito al riconoscimento del titolo di maestro di danza e al rilascio del diploma di abilitazione all’insegnamento della danza, ma senza segnare in concreto delle linee guida da seguire. 

 

            Il risultato è stato il proliferare di innumeri scuole di danza, alcune delle quali prive di qualsiasi contenuto educativo-artistico-culturale ed era del tutto evidente che lo Stato dovesse colmare la lacuna lasciata aperta nella disciplina delle scuole private proprio per tutelare quanti esercitano la professione di maestro di danza con lo scopo di istruire ed educare gli allievi mediante un corretto sviluppo psicofisico, contro chi volesse invece realizzare con la scuola un mero intento speculativo, a prescindere se tali soggetti fossero o meno forniti del diploma rilasciato dall’Accademia Nazionale di danza.

 

            Negli anni di vuoto legislativo, grazie alle associazioni che annoverano tra i loro scopi la tutela della formazione nel campo della danza, è stata tenuta viva la discussione sul punto mediante varie proposte quali la strutturazione di un esame di stato nei suoi due aspetti, eventualmente anche congiunti, di esame scolastico e di esame professionale, aperto a tutte le condizioni di legge e  quindi anche agli aspiranti privatisti o comunque provenienti da scuole private; ovvero la istituzione di un albo professionale con presentazione al Ministero della Pubblica istruzione  di idoneo curriculum vitae attestante le capacità professionali di danzatore nonché di maestro.

            I danzatori dipendenti degli enti lirici prospettavano pure un’ adeguata ristrutturazione della scuola di danza istituita presso gli enti stessi con un programma di studi più completo per essere in grado di rilasciare anche il diploma di abilitazione  all’insegnamento.

 

            LA SCUOLA DI DANZA PUBBLICA        

            Gli sforzi compiuti hanno visto il legislatore nuovamente impegnato sul tema dell’istruzione artistica, e quindi della musica e della danza, a far data dal 1994 con il D. Lgs. n. 297 cui hanno fatto seguito la L.508/99, che ha trasformato l’Accademia Nazionale di Danza in istituto di Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica, la L. 53/2003 (legge Moratti), che ha previsto l’istituzione dei licei coreutici, il Decreto Min. 22.10.2004 che ha regolamentato la formazione dei docenti in discipline coreutiche: danza classica e danza contemporanea, e da ultimo la L.133/2008 del ministro Gelmini che ha rinviato al 2010 la istituzione dei licei musicali e coreutici.  

 

            E’ evidente che i titoli rilasciati dalla Istituzione Pubblica saranno necessari  per l’insegnamento della danza nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado nell’attesa che venga creata una apposita classe di concorso. Ciò significa che lo Stato si farà carico di una formazione professionalizzante munita dei requisiti formali per l’inserimento negli istituti preposti e questo sicuramente è un bene.

 

            LA SCUOLA DI DANZA PRIVATA           

            Per quanto riguarda le scuole di danza private: per quelle che rispondono ai requisiti richiesti dalla legge basterebbe far rivivere l’istituto del pareggiamento; per tutte le altre, non dotate di strutture idonee e che forse nemmeno si prefiggono scopi tanto impegnativi, specialmente per ciò che riguarda la formazione degli insegnanti, sarà necessario che in esse l’insegnamento della danza trovi la sua giusta ragion d’essere nell’equilibrio tra la trasmissione della cultura e della tecnica della danza e la salvaguardia della salute fisica e psichica degli allievi.

 

            Padronissimo insomma chiunque di studiare come, dove e con chi gli pare, di coltivare le discipline più disparate; ma se si vuole avere un diploma legalmente riconosciuto o l’ammissione ad un certo ordine o grado di scuole statali sarà necessario uniformarsi ai programmi stabiliti dalla legge ed assoggettarsi alle relative prove di esame.

            E’ reciprocamente padronissimo chiunque di insegnare secondo le sue capacità e la sua vocazione, se trova allievi disposti a seguirlo. L’essenziale è che sia tutelata la buona fede delle famiglie e degli allievi contro le speculazioni illecite e l’inganno sul valore legale degli studi compiuti privatamente.

 

            Nel rispetto dell’inscindibilità dei principi di libertà nella scuola e libertà della scuola sanciti dalla nostra Costituzione sarà pertanto necessario che gli organi istituzionali svolgano una trasparente e costante campagna informativa sulla effettiva natura e spendibilità dei diplomi  rilasciati dall’Accademia Nazionale di Danza, nonchè da ogni altra scuola paritaria, posto che come innanzi detto il previsto istituto del pareggiamento non è stato mai perfezionato attraverso circolari, regolamenti di esecuzione e/o nuove disposizioni legislative 

 

            E’ evidente che allo stato il cosiddetto diploma rilasciato da una scuola di danza privata  non ha alcuna efficacia legale, anche se certamente allo stesso va attribuito un valore formale legato all’attestazione di aver seguito un corso di studi più o meno diversificato, di aver superato delle prove d’esame, di aver partecipato a delle selezioni e/o a degli spettacoli ed un valore artistico-culturale che ciascuno potrà spendere sulla scorta delle sue attitudini personali.

 

                                                                                             

E’ sempre più in uso, nella pratica commerciale, un contratto atipico ( cioè non espressamente regolamentato dalle nostre leggi ) di derivazione americana che consente alle aziende con un grande capitale investito in macchinari e simili, ma con scarsa liquidità, di ottenere denaro fresco in breve tempo . Tale contratto, chiamato contratto di sale and lease back, prevede che un’ azienda ceda alla società di leasing propri beni in cambio di un’immediata liquidità, e che, contemporaneamente, la stessa società lasci in uso gli stessi beni all’azienda che, nel frattempo ricomincerà ad acquistarne la proprietà dietro il pagamento di canoni periodici che estingueranno anche il prestito erogato dalla società finanziatrice. La formula descritta prevede nella sostanza un prestito garantito dai beni ceduti dall’azienda, il che pone una grossa questione di legittimità  e di compatibilità  della stessa rispetto alle norme del nostro ordinamento.

In effetti il nostro codice civile prevede tre diverse forme di garanzie reale, di garanzia cioè basata su una res, una cosa su cui il creditore può contare qualora il debitore non adempia : l’anticresi, l’ipoteca ed il pegno. Orbene, quest’ultima forma, il pegno, è quella che si usa quando il debitore offre in garanzia al creditore dei beni mobili e la sua disciplina  è regolamentata dal nostro Codice Civile con alcune norme. Di tali norme ve ne è  una, l’art. 2744 c.c., che, sancendo il divieto di patto commissorio pone le maggiori problematiche in relazione alla liceità del contratto di lease back. Il patto commisorio è quell’ accordo tra creditore e debitore pignoratizio, per cui qualora il debitore non dovesse adempiere il creditore potrebbe divenire proprietario del bene stesso. Come accennato l’art.2744 vieta accordi di questo tipo, consentendo invece al creditore pignoratizio, per realizzre la garanzia, di vendere il bene dato in pegno e soddisfarsi del ricavato. Sostanzialmente nel caso del lease back, invece è come se i beni dell’azienda venissero dati in pegno alla società di leasing a garanzia del prestito erogato che l’ imprenditore ripagherà con i canoni mensili, ma divenendo i beni immediatamente di proprietà della società, sostanzialmente si realizza un patto commissorio. Della questione è stata di recente più volte investita la Corte di Cassazione che ha stabilito, con la Sent. n.5438/06 un principio per determinare quando il lease back risulti valido  e quando invece sia stato stipulato in violazione del divieto di patto commissorio. La Corte ha infatti stabilito che occorre guardare alla causa, alla funzione economico sociale del contratto di lease back: in altri termini se la funzione del lease back è solo quella di finanziare l’impresa, il contratto è pienamente lecito, se viceversa viene posto in essere un contratto di lease back affinchè esso assolva alla funzione di garantire maggiormente, con la proprietà dei beni, la società che eroga il prestito, allora tale contratto potrà considerarsi nullo per illiceità della causa.   La Cassazione ha anche indicato dei criteri per stabilire  quando si verta nell’una o nell’altra ipotesi ed in particolare ha stabilito che, in proposito occorra fare riferimento a tre indici rivelatori in presenza dei quali il contratto è nullo: 1) l’esistenza di una situazione di credito e di debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice, 2) le difficoltà economiche in cui versa tale impresa, 3) una sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

Le decisioni riguardanti le parti comuni degli edifici  devono essere prese nell’ambito delle assemblee condominiali con l’approvazione della maggioranza dei proprietari, calcolata in base ai millesimi da loro detenuti.  Questa affermazione, desumibile dall’art.1105 c.c, non vuol dire, tuttavia, che qualunque decisione venga presa dalla suddetta maggioranza debba essere comunque accettata da chi,  pur detenendo solo una minoranza delle quote, si senta illegittimamente danneggiato da una delibera assembleare.  In effetti, a prescindere dalla maggioranza con cui sono state approvate,  le deliberazioni assembleari possono essere impugnate, come stabilisce il Codice Civile  all’art.1109, da ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente, al cospetto dell’autorità giudiziaria

1) Quando, nonostante l’approvazione della maggioranza, la deliberazione assembleare sia gravemente pregiudizievole alla cosa comune

2) Se comunque, a prescindere dalla maggioranza con cui è stata presa e dai suoi effetti, positivi o negativi, sulla cosa comune, la deliberazione sia stata presa senza che del suo oggetto siano stati  preventivamente informati tutti i comproprietari

3) Se la deliberazione relativa a innovazioni o comunque ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione,  pregiudica il godimento del condominio da parte anche di un solo comproprietario, o comunque ledano un suo interesse sulla cosa comune

Sostanzialmente dunque, la maggioranza dei condomini gode certamente della facoltà di esercitare un potere nel determinare il contenuto delle delibere assembleari, ma tale potere è circoscritto dai limiti di legge che si sono evidenziati.

Quando si fitta un appartamento, o un qualsiasi altro tipo di casa si stipula quello che, in gergo tecnico, viene definito come contratto di locazione di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione.

Come tutti sanno, oggetto di questo contratto è l’obbligo da parte del proprietario di cedere al conduttore, quello che comunemente viene definito inquilino,  il diritto di utilizzare in via esclusiva l’immobile dietro corresponsione di un canone periodico. 

Ma cosa succede se l’inquilino non paga con puntualità?

La risposta a questo interrogativo è contenuta negli artt.5 e 55 della L.27 Luglio 1978 n. 392, la cosiddetta Legge dell’equo canone. Tali norme prevedono che, decorsi venti giorni dalla scadenza del termine previsto per il pagamento del canone, il proprietario possa iniziare la procedura di sfratto per morosità. Questa procedura porta le parti di fronte ad un giudice che ordinerà, generalmente con un’ unica udienza, la liberazione dell’immobile. Tuttavia, come ultima ancora di salvezza per il conduttore, la legge prevede che in tale udienza il conduttore possa sanare la propria morosità, possa cioè pagare i canoni arretrati, evitando così di essere sfrattato. Questo, tuttavia, non può avvenire più di tre volte nel  corso  di un quadriennio, poichè al quarto mancato pagamento in quattro anni,  il giudice deve ordinare obbligatoriamente lo sfratto.  Tuttavia  di fronte  a comprovate condizioni di difficoltà del conduttore,  pur non avvenendo il pagamento in udienza, il giudice può ordinare che il pagamento venga differito di ulteriori novanta giorni. Va detto, in aggiunta, che se il conduttore si trovi in condizioni di difficoltà sorte dopo la stipulazione del contratto,  i bonus non sono tre come appena visto, ma salgono a quattro, e il termine precedente di novanta  giorni sale a centoventi.

Da questa rapidissima lettura delle norme che regolano la questione si può capire come il legislatore serbi un occhio di riguardo per il conduttore penalizzando il proprietario e di come non possa essere considerata perfetta l’equazione mancato pagamento puntuale del canone= sfratto.

Quando si parla di condominio degli edifici si è abituati  a pensare a grossi palazzi di cinque o sei piani e, magari può essere naturale, per i profani ritenere che solo in casi simili, con molti condomini, debbano essere appicate le norme che il Codice  Civile prevede per il condominio degli edifici, a cominciare da quelle, non troppo amate dai più, relative alle assembleee condominiali, alla nomina e revoca dell’amministratore, ai millesimi, ecc. Ma è davvero così?   In altre parole, se , per esempio ci troviamo di fronte al caso di un edifico piccolo composto da due sole unità abitative, i proprietari di queste ultime dovranno attenersi, nei rapporti tra di loro relativamente alle parti comuni ( androni, scale, ecc.)  alle regole dei normali condomìnii grandi, o dovranno regolare i loro rapporti sulla base delle regole della comunione, come sarebbe nel caso in cui essi fossero proprietari di un’unica indistinta proprietà abitativa ( questa ultima ipotesi si verifica frequentemente nel caso della comunione ereditaria, quando il de cuius lasci magari un unico appartamento appartamento a due figli) .

La domanda non è affatto infondata tanto che la questione è giunta più di una volta di fronte ai supremi giudici della Corte di Cassazione, dando luogo sul punto a divergenti opinioni anche presso la stessa giurisprudenza di legittimità. In effetti le varie pronunce che hanno riguardato la questione sono state piuttosto unanimi nell’affermare il generico principio che la disciplina dettata dal codice per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo  cioè di condominio composto da due soli partecipanti, ma vi sono state molte discordanze poi in riferimento a quali norme specifiche del condominio degli edifici dovessero trovare applicazione al  condominio minimo.  Prendiamo il caso in cui un solo condomino, di propria iniziativa e senza convocare in assemblea l’altro condomino effettui spese relative a cose comuni che ritiene urgenti.   Troverà applicazione la norma di cui all’art. 1134 c.c. relativa al condominio degli edifici per cui al condomino spettarà il rimborso delle spese effettuate purchè ne domostri l’urgenza o  sarà in vigore la disposizione di cui all’art.1110 c.c. relativa alla comunione per cui il partecipante che sostenga spese necessarie alla conseravzione della cosa coune avrà diritto al rimborso spese  dimostrando l’inerzia degli altri partecipanti, a  prescindere dalla urgenza omeno delle spese stesse? 

Con una pronuncia che si è occupata del caso la Cassazione ha stabilito che ,  nel caso del condominio minimo,  dovesse trovare sempre  applicazione l’art. 1110 c.c.   ( Cass. n.5664/1988), ma poi,  intervenute sul punto le Sez.Un.  della stessa Cassazione, con la Sent. n.2046 del 2006 hanno stabilito la necessità di applicare l’art. 1134 c.c. proprio in quanto anche in presenza di due soli condomini si è in presenza di un condominio di edifici vero e proprio. 

A prescindere dal caso specifico, i dubbi sulla possibilità di una intergrale applicazione della disciplina del condominio degli edifici al condominio minimo rimangono soprattutto relativamente alle prescrizioni dell’art.1136 c.c. che presuppongono, per essere applicate, la presenza di un numero di condomini superiore a due.

Ad ogni modo, nonostante i dubbi prospettati e le contraddizioni della giurisprudenza di legittimità di cui, per ragioni brevità in questa sede abbiamo potuto appena fare un brevissimo esempio, possiamo affermare che, chi sia proprietario di un’unità abitativa sita in uno stabile composto di due sole unità abitative deve rispettare i principi regolatori del condominio anche se l’altro condomino è soltanto uno e, laddove sia necessario prendere insieme  delle decisioni relative alle parti comuni dell’edificio ciò dovrà  essere fatto in una regolare assemblea di due condomini con rituale convocazione, a nulla valendo alcuna altra forma di comunicazione della necessità della decisione da adottare.

Il franchising, o  affiliazione commerciale, è il contratto fra due soggetti giuridici economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede all’altra, verso corrispettivo, la disponibilità  di un insieme di diritti di proprietà, industriale o intellettuale, relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, Know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema  costituito da una pluralità di affiliati, distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.   

E’ la Legge 6 maggio 2004 n. 129 che detta le norme per la discipina dell’affiliazione commerciale il cui contratto, necessariamente redatto in forma scritta  a pena di nullità,  può essere utilizzato in ogni settore di attività economica.

Per chi decide di intraprendere una attività economica può essere  molto utile ricorrere ad una rete di franchising perchè significa che la formula commerciale adottata  è stata già sperimentata ed ha prodotto i suoi frutti. Basta adeguarsi ai canoni prescritti quali l’ambito di eventuale esclusiva territoriale, il pagamento delle spese di ingresso la specifica del Know-how, le caratteristiche dei servizi offerti in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione, allestimento e formazione.

  Il Know-how è il patrimonio delle conoscenze pratiche non brevettate. Esso deve essere segreto, non è generalmente noto nè facilmente accessibile, sostanziale,  deve contenere le conoscenze indispensabili per l’uso, la vendita  e la gestione dei beni e servizi contrattuali, individuato, va descritto in maniera esauriente nel contratto in modo da poterne verificare il contenuto.

 Non bisogna pensare al franchising come un’ipotesi contrattuale spendibile solo tra gruppi societari di notevoli dimensioni perchè è possibile attuare una rete commerciale che goda degli stessi privilegi e vantaggi anche tra piccole società e/o ditte individuali.  

“Il contratto è l’accordo di due o più parti  per costituire, regolare o estinguere tra  loro un rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321 c.c.)

E’ buona norma quindi, prima di intraprendere una qualsiasi attività con altri soggetti, mettersi bene d’accordo sui termini e sulle condizioni dello svolgimento dell’attività stessa in modo da non incorrere in spiacevoli sorprese. Ecco perchè si stipula un contratto.

Dal contratto nascono diritti e doveri reciproci finalizzati al raggiungimento dei propri obiettivi.

Il contratto di consulenza artistica viene stipulato tra un soggetto che solitamente viene identificato come il Produttore ed un altro che viene denominato per l’appunto il Consulente.

Il Produttore intende realizzare degli eventi di spettacolo, musicali e/o culturali, in proprio o in collaborazione con altri soggetti, o per conto di enti pubblici e privati, con risorse proprie disponibili, o con contributi e finanziamenti.

Il Consulente svolge una attività che gli consente di essere a diretto contatto con artisti, musicisti, registi, case discografiche ed agenzie di produzione e distribuzione di spettacoli musicali  e che quindi è in grado di poter selezionare e trattare economicamente l’ingaggio di artisti, spettacoli, performances, eventi musicali e culturali, curandone tutti gli aspetti legali e fiscali.

Tale contratto viene denominato a prestazioni corrispettive perchè una parte si obbliga a prestare dei servizi e l’altra si obbliga a corrispondere un compenso commisurato al lavoro svolto. 

Nel contratto andranno altresì previste le conseguenze dell’inadempimento di entrambe le parti.